“Guarda che non c’e’ niente di normale nel cercare corpi di gente annegata lungo la costa”, mi dice Mohsen mentre camminiamo sulla battigia a est di Zarzis, all’alba e alla ricerca di rifiuti e di corpi di genti annegate.
Perche’ correnti sottomarine – e dio solo sa quanto è complesso il Mediterraneo mare – e venti, batimetria, conformazione di costa e fondali, moto ondoso, sfiga, – spingono qui la munnezza, in questo tratto di costa tunisina a 250km da Tripoli, e i morti annegati dell’ultimo naufragio alla fine sempre qua arrivano a spiaggiarsi, tra plastica e rifiuti provenienti da tutto il Mediterraneo mare.
E Mohsen Lihidhed, che da 25 anni cammina lungo la costa per cercare plastica e oggetti sputati dal mare, lui che e’ un postino in pensione di 64 anni, che ha provato a fare un museo chiamato ‘la Memoria del Mare’ con tutta la munnezza che ha recuperato in 25 anni di ricerche, e poi come e perchè la vita diventa altro, si trova a raccogliere scarpe di bambini e di donne e di uomini annegati a una ventina di chilometri da Ben Guardane ma sulla costa, che Ben Guardane è un pò verso l’interno e le sue genti col mare c’hanno poco a che fare.
E poi c’è Chamseddine Marzoug che di anni ne ha 53, fa il volontario della Croce Rossa da una decina d’anni almeno, e lui invece i morti annegati a Zarzis li raccoglie e li seppellisce. A lui lo vanno a chiamare pure a casa e di notte i pescatori per dirgli che sono stati trovati dei corpi, di venirli a prendere, che bisogna seppellirli. E lui arriva, raccoglie i cadaveri che arrivano sulla spiaggia dal mare, li porta in ospedale, chè il medico dichiari lo stato di morte, e li va a seppellire in uno spazio adibito a cimitero dei morti senza nome ripescati dal mare.
Prima, qualche anno fa, quando i morti senza nome erano di meno, li seppellivano tutti nel cimitero musulmano della città, poi hanno iniziato a diventare troppi, e le persone cominciano a lamentarsi quando diventano troppi, che metteteli altrove, e non sono musulmani, c’è il cimitero cattolico che e’ mezzo vuoto e ci stanno seppelliti pure quei 23 soldati italiani della seconda guerra, e c’e’ pure quello ebraico in citta’ di cimitero, ma a parlare di questi cimiteri si riaccendono vecchi e nuovi rancori, e allora per i morti senza nome annegati in mezzo al Mediterraneo un’area dignitosa per seppellirli non la si riesce a trovare, e così finiscono in uno spazio ricavato in una vecchia discarica qualche km nell’entroterra di Zarzis.
E Chamseddine li raccoglie, ”e devi stare attento a prenderli, si rompono”, con i guanti e le mascherine “che gli devi togliere le alghe, le pulci di mare e lo sporco che c’hanno addosso prima di seppellirli”, e che scava le buche con la pala, a mano e con qualcuno che lo aiuta, che un uomo adulto è pesante e non ce la fai a farlo scendere nella buca da solo, ti cade, e solleva i morti annegati con la porta del pollaio a mò di branda, che funziona bene per quello che serve – a sollevare i morti annegati – perchè la porta del suo pollaio c’ha un telaio rigido di ferro e una griglia interna di rete che fa passare l’acqua e la sabbia attraverso – e la ruspa della municipalità che viene ogni tanto a scavare e le buche le fa sì velocemente, ma con la pala smuove i mucchietti di sabbia coi morti sotto e cancella i segni, bisogna saperlo adoperare bene, l’escavatore.
“La sepoltura, bisogna garantire a questi corpi almeno la sepoltura, è un fatto di coscienza prima di tutto. E’ etica, prima ancora che religione”.
E tu te la fai la strada, in macchina con Mohsen e Chamseddine, uno che raccoglie rifiuti dal mare da 25 anni e che per 37 anni ha fatto il postino a Zarzis, e uno che raccoglie e seppellisce cadaveri affogati in mare da dodici anni come volontario della Croce Rossa, ed effettivamente arrivi in una discarica, e dentro c’è il cimitero dove sono seppelliti questi morti annegati e senza nome.
“Di spazio per tumularli non ce ne è più, sono rimasti 8, 9 posti al massimo. Laggiu’ non si può, inizia la terra di un privato. Quell’area li e’ pubblica ma e’ piena di detriti edili, c’è il vuoto sotto, e se li seppellisci là i morti scivolano e vanno a finire chissa’ dove, non li trovi piu”.
Allora ti guardi intorno, e anche se fai attenzione all’inizio fatichi a vederlo, il cimitero. Poi, di colpo, centinaia di piccoli mucchi di sabbia senza ordine di continuita’, dovunque, e capisci che sono tutte tombe e anche se non c’è nemmeno un bastone o una pietra ad identificarle, le tombe dei morti, lo vedi che effettivamente non c’è piu’ posto, e lì davanti una fossa già scavata ma vuota che tanto prima o poi qualcuno da seppellire arriva, e subito dopo la strada d’accesso e lo spazio è finito, e le fioriture rosse di questa estate mediterranea a rendere se possibile ancora più surreale un posto che di normale non ha niente, una discarica con dentro un cimitero dei morti annegati senza nome.
Chamseddine chiede un cimitero per i morti senza nome e annegati: un pezzo di terra recintato, con l’acqua per lavare i corpi dalle alghe e dai detriti del mare, un mezzo con una cella frigorifera per il trasporto dei cadaveri, abbigliamento proprio degli operatori, planimetria certa delle tumulazioni, targhette di riconoscimento, una insegna con su scritto ‘cimitero’. Trentamila euro, dice lui, sono sufficienti, per fare un cimitero ai morti senza nome che arrivano qui a Zarzis, Tunisia, a una 80ina di km dal confine con la Libia e a circa 150km da Sabratha, da dove e’ partita l’ultima imbarcazione affondata e di cui già 27 corpi sono stati recuperati, anche se ne cerchiamo ancora qualcuno la mattina all’alba, che non si sa mai.
Nemmeno a Mohsen glie lo hanno dato uno spazio per fare il museo della ‘Memoria del Mare’. E lui l’aveva fatto a casa sua e nel suo giardino il museo, e a guardar le foto era bellissimo, con 50.000 bottiglie raccolte e tutte sistemate, alcune pure con la letterina dentro come nei cartoni animati, e le bitte e casse e reti e tante tante cose che il mare ha sputato e che lui ha raccolto, fino alle scarpe dei bambini e degli harraga annegati. Poi il figlio s’è dovuto costruire la casa in mezzo al giardino, e Mohsen s’è messo daccordo con qualcuno per farlo altrove, ma poi non se ne è fatto più niente e adesso il suo personalissimo museo è sempre nel giardino di casa ma più piccolo, tra casa sua e la casa che si è costruito suo figlio, e la munnezza raccolta in 25 anni lungo le coste di Zarzis esposta e visibile è molta di meno ma sempre a casa sua ed è molto bello lo stesso quello che c’è, perchè è memoria, e testimonianza, e di memoria e testimonianza c’è bisogno come del pane.
E c’è pure chi viene recuperato vivo in mezzo al Mediterraneo, mica tutti affogano per fortuna, e vivo finisce al centro della Croce Rossa di Medenine, un centro di transito a 60km da Zarzis e lontano dal mare.
Al centro in questo fine giugno ci sono 135 ospiti, uomini donne ragazzi ragazze donne in cinta madri bambini, tutti insieme e divisi tra i piani della palazzina con le televisioni e i materassi e il cibo, e sono tutti sopravvissuti alla traversata dalla Libia verso l’Italia e recuperati dalla marina tunisina in mezzo al Mediterraneo mare. Oddio, non è che queste persone – quelle che ho incontrato a Medenine, intendo – abbiano fatto naufragio vero e proprio; un gruppo è stato recuperato dalla guardia costiera tunisina con il gommone che già imbarcava acqua, “eravamo alla deriva col motore in panne, altre due ore e finivamo tutti in mare” dice un uomo di 43 anni della Costa d’Avorio; un altro gruppo, il più numeroso e recente in ordine di arrivo, è stato agganciato il primo giorno di Ramadan, la loro barca – un gommone stracarico con 127 persone a bordo – e finito col motore rotto alla deriva verso una piattaforma petrolifera, che ha chiamato la guardia costiera tunisina dicendo che c’era una barca di migranti alla deriva vicino la loro piattaforma, e così sono rientrati nel porto di Zarzis con la guardia costiera e si trovano qui, a 60km dal mare, al centro della Croce Rossa di Medenine a decidere che fare.
E fa caldo, è Ramadan, si digiuna per tutto il giorno, e tu lo sai – questo si, lo sai – che le migrazioni sono un fenomeno complesso e articolato, e che i motivi per cui si parte – le ragioni – sono tante, diverse, stratificate, come tante e diverse sono le ragioni che spingono 150-200 mila persone all’anno a raggiungere l’Europa attraverso la Libia e il Mediterrano Centrale.
Ma sai che 150 – 200 mila persone non sono tante per un continente di 500 milioni di persone.
Sai che oggi in Libia oggi sono prigioniere c.a. 1 milione di persone, 1 milione di prigionieri,
e sai pure – e pure questo, lo sai, si sa, è storia, testimonianza, memoria – che in Libia è un inferno.
Lo sai, si sa, è provato, certo, raccontato, scritto, visto e testimoniato, è un inferno in terra, la Libia di oggi.
E te lo dice pure quel ragazzo del Gambia di 22 anni che parla bambarà con gli altri ragazzi dell’Africa Occidentale, – che a Sabratha è un inferno, che si spara, e ti chiudono ammassati in case che sono prigioni, e che sono degli uomini ‘senza dio’, quelli lì in Libia.
Li vedi, e sono ragazzi – e ragazze, ragazzine e ragazzini, donne in cinta, bambini, giovani padri e madri -, e pensi che da ragazzi ci si sente invincibili, che alla fine hanno attraversato mezza Africa e patito per mesi le pene dell’inferno per finire a Medenine in Tunisia e a 60km dal mare, e che a guardare negli occhi qualcuno che e’ stato recuperato dalla guardia costiera tunisina in un gommone stracarico alla deriva in mezzo al Mediterraneo, dopo essere stato caricato a forza da uomini senza dio banditi, che per mesi e mesi e derubati stuprati sparati prigionieri schiavi merce, oggetti, cose, mentre la mattina sei andato cercando cadaveri sulla costa ed hai visto in una discarica una buca già scavata ma vuota e che aspetta un corpo in decomposizione che tanto prima o poi arriva, non ha niente, niente di normale, perchè non è normale parlare con uno vivo e pensare che non è morto affogato solo per un caso e tu che immagini poteva essere morto e coperto di alghe e pulci di mare e Chamseddine a seppellirlo nella buca gia’ pronta non ha niente, niente di normale, e il cimitero dei morti senza nome nella discarica di Zarzis, che là dentro ci vanno a finire i morti annegati senza nome, che c’è già una buca scavata ma vuota perchè tanto qualcuno in decomposizione presto o tardi lì dentro ci finisce sicuro, e che non c’è più spazio e non si sa i prossimi morti dove andranno a finire che la discarica è piena.
Pensi alle bottiglie d’acqua piene di piscio e spiaggiate sulla riva e non capisci perchè, poi pensi che probabilmente si piscia in bottiglia perchè non ci si può muovere sulla barca per quanta gente sta ammassata, che se ti muovi tu si muovono tutti e alla fine tutto il gommone si rovescia, ma questo non me lo ha detto nessuno, e lui sulla barca, sul gommone c’è già stato, lui il ragazzo del Gambia di 22 anni che parla bambarà lo sa, io no, e io non lo ho chiesto a nessuno. Ho pensato pure che qualcuno se l’era messe da parte queste bottiglie, che l’acqua salata non si può mica bere e allora ci si mette da parte il piscio da bere, che non si sa mai.
Ma questo non glielo chiedo, al ragazzo del Gambia, a quello del Cameroun e della Costa d’Avorio, o alla ragzza nigeriana dagli occhi piccoli piccoli.
Io non lo so.
Ad alcune persone, quando le guardi negli occhi, ci vedi i fantasmi, dentro agli occhi.
E non ha niente di normale.
Normale. Partire, sogno, incubo. Essere traditi dalle promesse dei tuoi stessi connazionali e finire nelle mani di mafie maliane, nigerine, algerine, tunisine, malmenati in Libia e derubati stuprati sfregiati sparati prigionieri schiavi merce, oggetti, cose, buttati su un gommone alla fine della vita e della dignità e in mare annegare, in mare dove le barche pescano tonni e le lampare sardine e tu a morire e andare a fondo e riemergere dopo una decina di giorni o forse sette e finire sulla spiaggia in mezzo a plastica scatole vestiti e bottiglie piene di piscio e le alghe, per essere seppelliti senza nome in una discarica arrivata a saturazione senza nemmeno un bastone piantato nella sabbia a indicare dove stai, dove sta il tuo corpo. Una discarica che la guardi e non capisci che dovunque guardi ci stanno i morti, centinaia, senza nemmeno un cartello con la scritta ‘cimitero’, lì, un bimbo di 5 anni piu o meno, li’ una giovane donna, dice Chamseddine, “perchè bisogna seppellirli con dignità, sono esseri umani”.
E se li ricorda tutti Chamseddine, e se si dimentica lui e’ finita, che adesso stanno finalmente iniziando a seppellire i corpi con un braccialetto e la targhetta con la numerazione internazionale di riconoscibilità, adesso che il cimitero nella discarica è arrivato a saturazione quando per anni i morti sono stati seppelliti, uno a uno, come in una fossa comune diffusa e a tempo, adesso che non piove da febbraio a Zarzis ma che quando piove i mucchietti di terra si slavano via.
E prima o poi qualcuno chiedera’ – dov’è? -, in futuro ci sara’ qualcuno, che questo significa ‘cimitero’, il luogo dove sono seppelliti i propri cari e tu là vai a piangerli e a onorarli – perchè chiunque da qualche parte ha qualcuno che aspetta e prima o poi qualcuno verrà a chiedere, a Zarzis, a cercare i propri cari, come i soldati italiani seppelliti nel cimitero cristiano che è mezzo vuoto ma loro lì stanno e prima o poi qualcuno sempre viene, e per questo Chamseddine li seppellisce a questi morti senza nome, lui che se li ricorda tutti, e che seppellisce morti in putrefazione che hanno la colpa di essere partiti: “C’è sempre una famiglia che aspetta, una telefonata, dei soldi, un segno, qualcosa. Che aspetta loro che sono finiti schiavi in questa vita, morti annegati e a marcire sulla spiaggia, tra alghe e rifiuti. A costo di seppellirmeli nel giardino di casa, l’onore della sepoltura continuerò ad offrirglelo, finche campo”.
‘blindare il mare’, chiede l’Europa.
Piuttosto che liberalizzare i visti
legalizzare il viaggio
e drenare umanità e risorse a mafie criminali,
l’Europa risponde col canto della paura:
‘blindare il mare’: annegare
e senza nome risalire dal fondo in avanzato stato di decomposizione e spiaggiarsi tra plastica e rifiuti e alghe
e bottiglie d’acqua piene di piscio
e senza nemmeno più una discarica dove essere sepolti.
questo significa, ‘blindare il mare’, questo è quello che l’Europa continua ad avvallare.
Come se fosse possibile, poi, blindare il mare.
Finirà, finirà la colpa dell’andare, finirà come è finita la schiavitu’, penso mentre aspetto che il muezzin chiami la fine di questa giornata di Ramadan qui a Tunisi che ne frattempo mi ha accolto in una calda caldissima sera di fine giugno, seduto su di un tavolino all’aperto dalle parti di Bab Bahr, la porta della città che guarda al Mediterraneo, ma che il mare non lo vede, il mare è qualche chilometro più in là.
Mentre il cielo e migliaia di rondini e rondoni in volo sopra Tunisi, rondini e rondoni tutti indaffarati a nutrire i loro piccoli, che comunque a breve bisogna ripartire e tornare laggiu’, a casa.
Perche’ correnti sottomarine – e dio solo sa quanto è complesso il Mediterraneo mare – e venti, batimetria, conformazione di costa e fondali, moto ondoso, sfiga, – spingono qui la munnezza, in questo tratto di costa tunisina a 250km da Tripoli, e i morti annegati dell’ultimo naufragio alla fine sempre qua arrivano a spiaggiarsi, tra plastica e rifiuti provenienti da tutto il Mediterraneo mare.
E Mohsen Lihidhed, che da 25 anni cammina lungo la costa per cercare plastica e oggetti sputati dal mare, lui che e’ un postino in pensione di 64 anni, che ha provato a fare un museo chiamato ‘la Memoria del Mare’ con tutta la munnezza che ha recuperato in 25 anni di ricerche, e poi come e perchè la vita diventa altro, si trova a raccogliere scarpe di bambini e di donne e di uomini annegati a una ventina di chilometri da Ben Guardane ma sulla costa, che Ben Guardane è un pò verso l’interno e le sue genti col mare c’hanno poco a che fare.
E poi c’è Chamseddine Marzoug che di anni ne ha 53, fa il volontario della Croce Rossa da una decina d’anni almeno, e lui invece i morti annegati a Zarzis li raccoglie e li seppellisce. A lui lo vanno a chiamare pure a casa e di notte i pescatori per dirgli che sono stati trovati dei corpi, di venirli a prendere, che bisogna seppellirli. E lui arriva, raccoglie i cadaveri che arrivano sulla spiaggia dal mare, li porta in ospedale, chè il medico dichiari lo stato di morte, e li va a seppellire in uno spazio adibito a cimitero dei morti senza nome ripescati dal mare.
Prima, qualche anno fa, quando i morti senza nome erano di meno, li seppellivano tutti nel cimitero musulmano della città, poi hanno iniziato a diventare troppi, e le persone cominciano a lamentarsi quando diventano troppi, che metteteli altrove, e non sono musulmani, c’è il cimitero cattolico che e’ mezzo vuoto e ci stanno seppelliti pure quei 23 soldati italiani della seconda guerra, e c’e’ pure quello ebraico in citta’ di cimitero, ma a parlare di questi cimiteri si riaccendono vecchi e nuovi rancori, e allora per i morti senza nome annegati in mezzo al Mediterraneo un’area dignitosa per seppellirli non la si riesce a trovare, e così finiscono in uno spazio ricavato in una vecchia discarica qualche km nell’entroterra di Zarzis.
E Chamseddine li raccoglie, ”e devi stare attento a prenderli, si rompono”, con i guanti e le mascherine “che gli devi togliere le alghe, le pulci di mare e lo sporco che c’hanno addosso prima di seppellirli”, e che scava le buche con la pala, a mano e con qualcuno che lo aiuta, che un uomo adulto è pesante e non ce la fai a farlo scendere nella buca da solo, ti cade, e solleva i morti annegati con la porta del pollaio a mò di branda, che funziona bene per quello che serve – a sollevare i morti annegati – perchè la porta del suo pollaio c’ha un telaio rigido di ferro e una griglia interna di rete che fa passare l’acqua e la sabbia attraverso – e la ruspa della municipalità che viene ogni tanto a scavare e le buche le fa sì velocemente, ma con la pala smuove i mucchietti di sabbia coi morti sotto e cancella i segni, bisogna saperlo adoperare bene, l’escavatore.
“La sepoltura, bisogna garantire a questi corpi almeno la sepoltura, è un fatto di coscienza prima di tutto. E’ etica, prima ancora che religione”.
E tu te la fai la strada, in macchina con Mohsen e Chamseddine, uno che raccoglie rifiuti dal mare da 25 anni e che per 37 anni ha fatto il postino a Zarzis, e uno che raccoglie e seppellisce cadaveri affogati in mare da dodici anni come volontario della Croce Rossa, ed effettivamente arrivi in una discarica, e dentro c’è il cimitero dove sono seppelliti questi morti annegati e senza nome.
“Di spazio per tumularli non ce ne è più, sono rimasti 8, 9 posti al massimo. Laggiu’ non si può, inizia la terra di un privato. Quell’area li e’ pubblica ma e’ piena di detriti edili, c’è il vuoto sotto, e se li seppellisci là i morti scivolano e vanno a finire chissa’ dove, non li trovi piu”.
Allora ti guardi intorno, e anche se fai attenzione all’inizio fatichi a vederlo, il cimitero. Poi, di colpo, centinaia di piccoli mucchi di sabbia senza ordine di continuita’, dovunque, e capisci che sono tutte tombe e anche se non c’è nemmeno un bastone o una pietra ad identificarle, le tombe dei morti, lo vedi che effettivamente non c’è piu’ posto, e lì davanti una fossa già scavata ma vuota che tanto prima o poi qualcuno da seppellire arriva, e subito dopo la strada d’accesso e lo spazio è finito, e le fioriture rosse di questa estate mediterranea a rendere se possibile ancora più surreale un posto che di normale non ha niente, una discarica con dentro un cimitero dei morti annegati senza nome.
Chamseddine chiede un cimitero per i morti senza nome e annegati: un pezzo di terra recintato, con l’acqua per lavare i corpi dalle alghe e dai detriti del mare, un mezzo con una cella frigorifera per il trasporto dei cadaveri, abbigliamento proprio degli operatori, planimetria certa delle tumulazioni, targhette di riconoscimento, una insegna con su scritto ‘cimitero’. Trentamila euro, dice lui, sono sufficienti, per fare un cimitero ai morti senza nome che arrivano qui a Zarzis, Tunisia, a una 80ina di km dal confine con la Libia e a circa 150km da Sabratha, da dove e’ partita l’ultima imbarcazione affondata e di cui già 27 corpi sono stati recuperati, anche se ne cerchiamo ancora qualcuno la mattina all’alba, che non si sa mai.
Nemmeno a Mohsen glie lo hanno dato uno spazio per fare il museo della ‘Memoria del Mare’. E lui l’aveva fatto a casa sua e nel suo giardino il museo, e a guardar le foto era bellissimo, con 50.000 bottiglie raccolte e tutte sistemate, alcune pure con la letterina dentro come nei cartoni animati, e le bitte e casse e reti e tante tante cose che il mare ha sputato e che lui ha raccolto, fino alle scarpe dei bambini e degli harraga annegati. Poi il figlio s’è dovuto costruire la casa in mezzo al giardino, e Mohsen s’è messo daccordo con qualcuno per farlo altrove, ma poi non se ne è fatto più niente e adesso il suo personalissimo museo è sempre nel giardino di casa ma più piccolo, tra casa sua e la casa che si è costruito suo figlio, e la munnezza raccolta in 25 anni lungo le coste di Zarzis esposta e visibile è molta di meno ma sempre a casa sua ed è molto bello lo stesso quello che c’è, perchè è memoria, e testimonianza, e di memoria e testimonianza c’è bisogno come del pane.
E c’è pure chi viene recuperato vivo in mezzo al Mediterraneo, mica tutti affogano per fortuna, e vivo finisce al centro della Croce Rossa di Medenine, un centro di transito a 60km da Zarzis e lontano dal mare.
Al centro in questo fine giugno ci sono 135 ospiti, uomini donne ragazzi ragazze donne in cinta madri bambini, tutti insieme e divisi tra i piani della palazzina con le televisioni e i materassi e il cibo, e sono tutti sopravvissuti alla traversata dalla Libia verso l’Italia e recuperati dalla marina tunisina in mezzo al Mediterraneo mare. Oddio, non è che queste persone – quelle che ho incontrato a Medenine, intendo – abbiano fatto naufragio vero e proprio; un gruppo è stato recuperato dalla guardia costiera tunisina con il gommone che già imbarcava acqua, “eravamo alla deriva col motore in panne, altre due ore e finivamo tutti in mare” dice un uomo di 43 anni della Costa d’Avorio; un altro gruppo, il più numeroso e recente in ordine di arrivo, è stato agganciato il primo giorno di Ramadan, la loro barca – un gommone stracarico con 127 persone a bordo – e finito col motore rotto alla deriva verso una piattaforma petrolifera, che ha chiamato la guardia costiera tunisina dicendo che c’era una barca di migranti alla deriva vicino la loro piattaforma, e così sono rientrati nel porto di Zarzis con la guardia costiera e si trovano qui, a 60km dal mare, al centro della Croce Rossa di Medenine a decidere che fare.
E fa caldo, è Ramadan, si digiuna per tutto il giorno, e tu lo sai – questo si, lo sai – che le migrazioni sono un fenomeno complesso e articolato, e che i motivi per cui si parte – le ragioni – sono tante, diverse, stratificate, come tante e diverse sono le ragioni che spingono 150-200 mila persone all’anno a raggiungere l’Europa attraverso la Libia e il Mediterrano Centrale.
Ma sai che 150 – 200 mila persone non sono tante per un continente di 500 milioni di persone.
Sai che oggi in Libia oggi sono prigioniere c.a. 1 milione di persone, 1 milione di prigionieri,
e sai pure – e pure questo, lo sai, si sa, è storia, testimonianza, memoria – che in Libia è un inferno.
Lo sai, si sa, è provato, certo, raccontato, scritto, visto e testimoniato, è un inferno in terra, la Libia di oggi.
E te lo dice pure quel ragazzo del Gambia di 22 anni che parla bambarà con gli altri ragazzi dell’Africa Occidentale, – che a Sabratha è un inferno, che si spara, e ti chiudono ammassati in case che sono prigioni, e che sono degli uomini ‘senza dio’, quelli lì in Libia.
Li vedi, e sono ragazzi – e ragazze, ragazzine e ragazzini, donne in cinta, bambini, giovani padri e madri -, e pensi che da ragazzi ci si sente invincibili, che alla fine hanno attraversato mezza Africa e patito per mesi le pene dell’inferno per finire a Medenine in Tunisia e a 60km dal mare, e che a guardare negli occhi qualcuno che e’ stato recuperato dalla guardia costiera tunisina in un gommone stracarico alla deriva in mezzo al Mediterraneo, dopo essere stato caricato a forza da uomini senza dio banditi, che per mesi e mesi e derubati stuprati sparati prigionieri schiavi merce, oggetti, cose, mentre la mattina sei andato cercando cadaveri sulla costa ed hai visto in una discarica una buca già scavata ma vuota e che aspetta un corpo in decomposizione che tanto prima o poi arriva, non ha niente, niente di normale, perchè non è normale parlare con uno vivo e pensare che non è morto affogato solo per un caso e tu che immagini poteva essere morto e coperto di alghe e pulci di mare e Chamseddine a seppellirlo nella buca gia’ pronta non ha niente, niente di normale, e il cimitero dei morti senza nome nella discarica di Zarzis, che là dentro ci vanno a finire i morti annegati senza nome, che c’è già una buca scavata ma vuota perchè tanto qualcuno in decomposizione presto o tardi lì dentro ci finisce sicuro, e che non c’è più spazio e non si sa i prossimi morti dove andranno a finire che la discarica è piena.
Pensi alle bottiglie d’acqua piene di piscio e spiaggiate sulla riva e non capisci perchè, poi pensi che probabilmente si piscia in bottiglia perchè non ci si può muovere sulla barca per quanta gente sta ammassata, che se ti muovi tu si muovono tutti e alla fine tutto il gommone si rovescia, ma questo non me lo ha detto nessuno, e lui sulla barca, sul gommone c’è già stato, lui il ragazzo del Gambia di 22 anni che parla bambarà lo sa, io no, e io non lo ho chiesto a nessuno. Ho pensato pure che qualcuno se l’era messe da parte queste bottiglie, che l’acqua salata non si può mica bere e allora ci si mette da parte il piscio da bere, che non si sa mai.
Ma questo non glielo chiedo, al ragazzo del Gambia, a quello del Cameroun e della Costa d’Avorio, o alla ragzza nigeriana dagli occhi piccoli piccoli.
Io non lo so.
Ad alcune persone, quando le guardi negli occhi, ci vedi i fantasmi, dentro agli occhi.
E non ha niente di normale.
Normale. Partire, sogno, incubo. Essere traditi dalle promesse dei tuoi stessi connazionali e finire nelle mani di mafie maliane, nigerine, algerine, tunisine, malmenati in Libia e derubati stuprati sfregiati sparati prigionieri schiavi merce, oggetti, cose, buttati su un gommone alla fine della vita e della dignità e in mare annegare, in mare dove le barche pescano tonni e le lampare sardine e tu a morire e andare a fondo e riemergere dopo una decina di giorni o forse sette e finire sulla spiaggia in mezzo a plastica scatole vestiti e bottiglie piene di piscio e le alghe, per essere seppelliti senza nome in una discarica arrivata a saturazione senza nemmeno un bastone piantato nella sabbia a indicare dove stai, dove sta il tuo corpo. Una discarica che la guardi e non capisci che dovunque guardi ci stanno i morti, centinaia, senza nemmeno un cartello con la scritta ‘cimitero’, lì, un bimbo di 5 anni piu o meno, li’ una giovane donna, dice Chamseddine, “perchè bisogna seppellirli con dignità, sono esseri umani”.
E se li ricorda tutti Chamseddine, e se si dimentica lui e’ finita, che adesso stanno finalmente iniziando a seppellire i corpi con un braccialetto e la targhetta con la numerazione internazionale di riconoscibilità, adesso che il cimitero nella discarica è arrivato a saturazione quando per anni i morti sono stati seppelliti, uno a uno, come in una fossa comune diffusa e a tempo, adesso che non piove da febbraio a Zarzis ma che quando piove i mucchietti di terra si slavano via.
E prima o poi qualcuno chiedera’ – dov’è? -, in futuro ci sara’ qualcuno, che questo significa ‘cimitero’, il luogo dove sono seppelliti i propri cari e tu là vai a piangerli e a onorarli – perchè chiunque da qualche parte ha qualcuno che aspetta e prima o poi qualcuno verrà a chiedere, a Zarzis, a cercare i propri cari, come i soldati italiani seppelliti nel cimitero cristiano che è mezzo vuoto ma loro lì stanno e prima o poi qualcuno sempre viene, e per questo Chamseddine li seppellisce a questi morti senza nome, lui che se li ricorda tutti, e che seppellisce morti in putrefazione che hanno la colpa di essere partiti: “C’è sempre una famiglia che aspetta, una telefonata, dei soldi, un segno, qualcosa. Che aspetta loro che sono finiti schiavi in questa vita, morti annegati e a marcire sulla spiaggia, tra alghe e rifiuti. A costo di seppellirmeli nel giardino di casa, l’onore della sepoltura continuerò ad offrirglelo, finche campo”.
‘blindare il mare’, chiede l’Europa.
Piuttosto che liberalizzare i visti
legalizzare il viaggio
e drenare umanità e risorse a mafie criminali,
l’Europa risponde col canto della paura:
‘blindare il mare’: annegare
e senza nome risalire dal fondo in avanzato stato di decomposizione e spiaggiarsi tra plastica e rifiuti e alghe
e bottiglie d’acqua piene di piscio
e senza nemmeno più una discarica dove essere sepolti.
questo significa, ‘blindare il mare’, questo è quello che l’Europa continua ad avvallare.
Come se fosse possibile, poi, blindare il mare.
Finirà, finirà la colpa dell’andare, finirà come è finita la schiavitu’, penso mentre aspetto che il muezzin chiami la fine di questa giornata di Ramadan qui a Tunisi che ne frattempo mi ha accolto in una calda caldissima sera di fine giugno, seduto su di un tavolino all’aperto dalle parti di Bab Bahr, la porta della città che guarda al Mediterraneo, ma che il mare non lo vede, il mare è qualche chilometro più in là.
Mentre il cielo e migliaia di rondini e rondoni in volo sopra Tunisi, rondini e rondoni tutti indaffarati a nutrire i loro piccoli, che comunque a breve bisogna ripartire e tornare laggiu’, a casa.